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TRIVELLE, UNA BREVE GUIDA AL REFERENDUM

(da National Geographic.it) Dalle 7 alle 23 di domenica 17 aprile i cittadini sono chiamati a esprimersi su una questione tecnica che però potrebbe avere sostanziali implicazioni politiche: il destino dei permessi di estrarre idrocarburi in mare, entro le 12 miglia nautiche dalla costa. A favore del «sì» ci sono numerose regioni costiere e gran parte delle associazioni ambientaliste: schierati per il «no» o per l’astensione, il governo, le categorie industriali, diversi partiti e sindacati.

Quante e dove sono le trivelle?
Secondo i dati forniti dal ministero dello Sviluppo economico, nelle acque italiane ci sono 135 piattaforme, 92 delle quali situate all’interno delle 12 miglia nautiche (22.2 chilometri dalla costa) che costituiscono il limite delle acque territoriali, ovvero quella porzione di mare nel quale gli stati esercitano la piena sovranità. Queste 92 piattaforme off-shore ricadono all’interno di 35 concessioni, 26 delle quali produttive. Le piattaforme attive sono 79 , a cui corrispondono 463 pozzi. Eccetto i giacimenti di fronte ai porti di Gela e Crotone, tutti gli altri sono situati nel Mare Adriatico, in particolare al largo di Romagna, Marche e Abruzzo. 

L’attività estrattiva riguarda principalmente il gas: sono solo 4 le piattaforme attive nell’estrazione del greggio, nel canale di Sicilia e nell’Adriatico centrale.
Chi ha voluto il referendum?
Per la prima volta nella storia del Paese, il referendum è stato proposto da dieci consigli regionali, poi divenuti nove in seguito al ritiro dell’Abruzzo: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Cioè buona parte delle regioni che si affacciano sul mare. I quesiti referendari erano inizialmente sei, elaborati in risposta al decreto legislativo “Sblocca Italia” che aveva di fatto escluso le regioni dal processo decisionale. La bocciatura della Corte Costituzionale ha costretto il governo a recepire l’essenza di cinque dei quesiti, apportando alcune modifiche alla Legge di Stabilità.Cosa prevede il referendum?
Il quesito sopravvissuto, sul quale i cittadini sono chiamati a esprimersi, riguarda la possibilità di prorogare a tempo illimitato la scadenza delle concessioni off-shore situate entro le 12 miglia nautiche. La norma della Legge di Stabilità di cui i promotori chiedono l’abrogazione fissa la durata delle concessioni a 30 anni, prorogabile però per una o più volte per un periodo di dieci anni se il giacimento dovesse risultare ancora coltivabile. In caso di vittoria del «sì», le attività invece dovranno interrompersi alla scadenza della concessione trentennale. In caso di vittoria del «no» o del mancato raggiungimento del quorum – pari alla metà più uno dei cittadini aventi diritto al voto – tutto resterà come prima.Cosa non prevede il referendum?
Il referendum non metterà immediatamente fine all’estrazione di idrocarburi dalle piattaforme marine. Se vincerà il «si» gli impianti proseguiranno infatti la propria attività fino alla scadenza trentennale della concessione: la prima trivella si fermerà nel 2018, l’ultima nel 2034. Il referendum non proibisce nemmeno il rilascio di nuove concessioni, già vietate dal “Codice dell’Ambiente” in vigore dal 2006. Tuttavia, all’interno delle concessioni già rilasciate, potranno essere installate nuove piattaforme e scavati nuovi pozzi, fino allo scadere della concessione stessa. Uno scenario considerato non improbabile – specie nel canale di Sicilia – qualora dovesse vincere il «no»: la proroga allo sfruttamento potrebbe rendere economicamente vantaggioso l’investimento in nuove infrastrutture.

Infine, il referendum non interessa affatto i pozzi di estrazione sulla terraferma.

Quali sono i rischi delle trivelle off-shore?
Poiché gli impianti italiani estraggono principalmente gas, non è verosimile che nei nostri mari si verifichi una catastrofe come quella avvenuta nel Golfo del Messico nel 2010. L’unico incidente risale al 1965 quando una piattaforma in fase di installazione al largo di Ravenna esplose, senza causare gravi danni ambientali. Nel caso improbabile che si verificasse una perdita di petrolio le conseguenze sarebbero tuttavia drammatiche poiché il Mediterraneo è un mare chiuso: i danni avrebbero effetti drastici e di lungo termine su ambiente, qualità della vita, turismo e pesca. È tuttavia doveroso sottolineare come il rischio rimanga tale anche nel caso in cui l’incidente dovesse verificarsi negli impianti situati oltre le 12 miglia nautiche o nelle acque territoriali di nazioni vicine; senza contare le navi petroliere che già solcano i nostri mari.

Quale futuro energetico per l’Italia?
I giacimenti italiani off-shore sono di scarsa entità e contribuiscono nel complesso (sommando gas e greggio) per meno del 4% al fabbisogno energetico nazionale. Qualunque sia l’esito del referendum, esso non sconvolgerà la politica energetica del Paese, che rimane fortemente dipendente dalle importazioni estere. Poiché la sorte delle piattaforme è stata già decisa nel 2006, sostengono i promotori, la vittoria del «sì» costringerebbe il governo ad accelerare la riflessione sul destino energetico del Paese, alla luce della COP21 e degli obiettivi nazionali vincolanti dall’Unione Europea per le rinnovabili, che l’Italia ha fissato al 17% entro il 2020. L’obiettivo è stato già raggiunto lo scorso anno – soprattutto grazie al contributo dell’idroelettrico – ma paragonato agli sforzi delle altre nazioni è tra i meno ambiziosi: Islanda, Norvegia e Svezia sono già oltre il 50% mentre la media dell’Unione Europea è del 20%. Il taglio degli incentivi al fotovoltaico, disposti nel 2015 dal governo, rischia di aumentare ulteriormente il ritardo dagli altri paesi.

I sostenitori del «no» e dell’astensione ribattono che la transizione verso le rinnovabili sarà per forza di cose lunga e che di gas e petrolio ci sarà ancora bisogno per diversi anni. Riunciare alla pur piccola quota di produzione italiana rischia di essere controproducente: sfruttare i giacimenti italiani già esistenti, oltre a consentire il pieno ammortamento degli investimenti e a preservare posti di lavoro, eviterebbe di dover ricorrere a nuove trivellazioni, magari in paesi del Terzo Mondo che hanno legislazioni meno attente delle nostre, così spostando il rischio ambientale e forse anche aumentandolo data la necessità di trasportare gas e petrolio straniero verso i nostri porti.

Foto: web ©

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