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“Nessun futuro per i giovani immigrati a Terni”: accoglienza e inclusione sociale secondo la ricercatrice Migliarini

(Roberta Falasca) Valentina Migliarini è la mamma di Gabriel ed è una donna ricercatrice universitaria che indaga su quei fenomeni sociali che invogliano l’essere umano a respingersi tramite potenti armi, come gli stereotipi, i pregiudizi e il razzismo.

La dottoressa Migliarini è nata e cresciuta a Terni ma poi ha deciso che solo all’estero poteva trovare delle risposte. Ha trascorso la sua vita formativa in giro per mondo a studiare i valori della relazione educativa, il senso della cittadinanza, il rapporto tra vita quotidiana e inclusione sociale. “L’Italia ancora non è pronta ad accogliere” e allora secondo lei da che parte si dovrebbe iniziare per cambiare il mondo?

“Vorrei ringraziare la vostra redazione per avermi contattata e per avermi dato la possibilità di condividere esperienze e opinioni relative al mio lavoro come docente e ricercatrice universitaria. Rispondo alla sua domanda facendo una piccola puntualizzazione: come è declinato in Italia il significato della parola accogliere? E accogliere chi e cosa? Penso che la stragrande maggioranza del pubblico bianco italiano non riesce, prima di tutto, ad avere una consapevolezza del proprio privilegio e potere simbolico (non necessariamente materiale), e di come riproduce nel quotidiano una ‘norma’.

Questa ‘norma’ socialmente costruita si riferisce a identità come il maschio, il bianco, l’eterosessuale, il normodotato, il cristiano, la famiglia mononucleare costituita da padre e madre, e colui che parla correttamente la lingua italiana. Il privilegio e il potere simbolico dei bianchi italiani si manifesta attraverso piccole azioni quotidiane, che creano una linea di demarcazione fra chi è vicino alla norma e chi non lo è.

Tutti coloro che vengono intenzionalmente allontanati da questa norma, in virtù delle loro identità diverse, vengono patologizzati, e costruiti come soggetti devianti. A mio avviso, è necessario decostruire le esistenti definizioni di accoglienza e di inclusione, che si nutrono dell’attuale sistema neoliberista, e ripensarli in ottica decisamente più radicale e basata su una solidarietà che non sia più solo performativa, ma che diventi un vero e proprio stile di vita. Per far ciò occorre partire da noi stessi. Le femministe nere argomentano che è impossibile parlare o affrontare le forme di oppressione sociale senza avere chiaro il proprio posizionamento.

Io, per esempio, sono prima di tutto una donna bianca, una mamma single che cresce un bambino mixed-raced, una studiosa dell’antirazzismo e dell’abilismo nel campo educativo, una sostenitrice e co-cospiratrice della pedagogia abolizionista (la pedagogia abolizionista si basa sulla premessa che le ingiustizie si manifestano in modo diverso a scuola e nella società, e che i soggetti intenzionalmente marginalizzati non sono da patologizzare attraverso un uso discriminatorio della disciplina. La pedagogia abolizionista s’ispira al lavoro di Angela Davis sull’abolizione del sistema carcerario).

Per ridefinire accoglienza e inclusione nell’ottica di una solidarietà autentica bisogna partire da sé stessi e dalla consapevolezza dei privilegi e del potere di ciascuno. Solo in questo modo si può entrare in ascolto e in comunità con chi viene intenzionalmente marginalizzato. Un certo pubblico di italiani bianchi ha bisogno di questo: fare un passo indietro, restare in silenzio, ascoltare e dare la parola a tutti coloro che vivono identità all’intersezione di molteplici differenze (‘razza’, da intendersi come costruzione sociale, disabilità, sesso e orientamento sessuale, età, status migratorio, lingua)”.

Ci parli dei suoi viaggi e della sua formazione.

“Ho lasciato Terni all’età di 19 anni, nel 2003. Mi sono trasferita a Roma per conseguire gli studi presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre. Ero, ieri come oggi, determinata a entrare nel mondo della Pedagogia con l’obiettivo di formare tutte le insegnanti ad un’inclusione autentica. Ho avuto un’esperienza terribile al liceo con la mia professoressa di matematica – una brava persona, ma insomma una che di didattica della matematica davvero sapeva poco e non era in grado di coinvolgere tutti gli alunni.

Ci sono degli studi pedagogici internazionali che dimostrano come le discriminazioni all’intersezione fra razza, classe sociale e genere avvengono proprio nelle classi di matematica e scienze. Qui rovinerò il ricordo di qualcuno dei miei amici, ma da un punto di vista pedagogico, quella mia insegnante di matematica era davvero terribile. A Roma Tre mi sono formata come Educatrice professionale di comunità ed ero interessata a questioni di giustizia sociale in ambito educativo. Non c’era un corso di laurea con questo indirizzo e così, una volta laureata sono volata a Londra e mi sono iscritta a un corso di Master in giustizia sociale e educazione e poi a un Master sulla ricerca sociale e educativa – mi interessava veramente fare ricerca. Mi sono piano piano specializzata sul diritto all’educazione dei minori non accompagnati richiedenti asilo e rifugiati e l’intersezione fra razza, status migratorio e linguaggio. Mentre facevo i master, ho lavorato come assistente di ricerca nelle due più importanti organizzazioni che si occupano di relazioni razziali in Inghilterra: l’Institute of Race Relations e il Runnymede Trust. La mia capa al Runnymede, una donna nera con un dottorato in Psicologia, è ora vicesindaco di Londra e dirige le politiche inclusive della città. Una gioia averlo scoperto!

Dopo l’esperienza di lavoro e studio in Inghilterra, sono andata a Beirut, in Libano, per lavorare a un progetto di cittadinanza democratica e inclusiva nelle scuole multireligiose della capitale libanese. Il progetto era coordinato da un mio ex collega di master. Mentre ero a Beirut, ho insegnato anche italiano nelle scuole medie, grazie alla collaborazione con l’istituto di Cultura dell’ambasciata italiana. Dopo due anni intensi a Beirut, sono rientrata in Italia e ho cominciato il mio percorso di dottorato tra Roma Tre e l’Institute of Education di Londra. Mio figlio è nato all’inizio del mio dottorato. Ha respirato e si è nutrito di latte e Critical race theory, ha ascoltato a 6/8 mesi lezioni di eminenti professori e ora, a quasi sette anni ha vissuto in tre paesi e due continenti diversi. Un vero cosmopolita!

Alla fine del mio dottorato, ho vinto la prestigiosa borsa Fulbright per il mio post-dottorato e, insieme a mio figlio ci siamo trasferiti per un anno a Lawrence in Kansas. Questa esperienza ha rappresentato un cambiamento totale nella mia carriera. Ho avuto modo di conoscere e lavorare con i più importanti accademici e attivisti nel campo della giustizia sociale e educazione. Collaboro a tutt’oggi con professori da New York a Chicago a Stanford. Insomma, una grande soddisfazione, ma soprattutto una grande occasione di apprendimento e di apertura verso nuove conoscenze all’avanguardia nel campo educativo. Finito il periodo di residenza Fulbright, ho terminato il periodo di post-dottorato al dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Da Novembre 2019 sono docente a tempo indeterminato di Sociologia dell’Educazione presso l’Università di Portsmouth, al Sud dell’Inghilterra”.

Dottoressa Migliarini, le sue ricerche vertono sullo studio di un modello di uomo e donna stereotipato dalla società: perché nel 2020 un uomo e una donna stranieri in Italia non hanno le stesse chance di un cittadino italiano?

“Storicamente l’Italia è stata un paese di emigrazione e negli anni non ha saputo costruire una società che sapesse includere nel suo funzionamento capitale umano di diversi background. Poi c’è la questione della cittadinanza e di come questo diritto s’interseca con razza, lingua e status migratorio. Immagino che tutti avranno seguito il dibattito politico, a mio parere vergognoso, sulla cittadinanza. Questa è basata sul sangue e su quel concetto di norma di cui parlavo prima. Anche quando persone di diverso background fanno sforzi per assimilarsi in quella norma, devono passare molti ostacoli prima di ottenere il diritto alla cittadinanza.

Questo incide moltissimo sulle loro carriere e sulla loro rappresentanza in molte istituzioni italiane. Pensiamo, per esempio, al fatto che per accedere a molti concorsi pubblici, uno dei requisiti è la cittadinanza italiana. Conosco moltissimi docenti internazionali che vorrebbero insegnare inglese nelle scuole pubbliche italiane, e lo farebbero meglio di certi docenti italiani che non sono madrelingua. Non possono farlo perché non sono cittadini italiani”.

Perché in Italia manca la cultura dell’accettazione dell’altro?

“Perché manca una pedagogia e una didattica antirazzista e intersezionale dal nido all’università. Non c’è una diversità nelle nostre istituzioni educative, direi in tutte le istituzioni. Gli insegnanti dal nido alle superiori non vengono formati in chiave antirazzista e intersezionale, mettendo al centro le narrazioni e le prospettive di chi vive l’oppressione quotidianamente”.

Secondo lei, a Terni, piccola città di provincia, ha delle valide politiche sociali?

“Al momento, e almeno negli ultimi tre o quattro anni assolutamente no. Ci sono stati vari tentativi ma con scarso successo. C’è anche una macchina burocratica estremamente farraginosa che impedisce l’implementazione (oltre alla creazione) di politiche sociali d’avanguardia e che puntino alla solidarietà nella comunità. Manca poi la creatività e un’analisi critica dei bisogni nella stesura delle politiche sociali, a mio avviso”.

Attualmente, anche Terni ospita ragazzi molto giovani emigrati dalle proprie terre d’origine. Secondo lei, che futuro possono avere questi giovani?

“Allo stato attuale con gli obiettivi attuali delle suddette politiche sociali, i giovani immigrati a Terni non hanno alcun futuro. Anzi la mia ricerca ha mostrato come questi vengono intenzionalmente tenuti in un costanze limbo assistenziale, che di fatto li spinge alla criminalità o al lavoro nero. Una cosa tipica italiana insomma. Non c’è un investimento sulle loro capacità, una semplificazione della burocrazia per permettere loro di acquisire anche nuove conoscenze, studiare e uscire dallo stereotipo del giovane immigrato nero lavapiatti, aiuto cuoco o meccanico. Le assicuro che le persone che io ho intervistato nella mia ricerca hanno alte aspirazioni e vorrebbero avanzare nei loro studi, migliorare le conoscenze pregresse. Ma sono costretti in un limbo e dunque molti di loro sognano di lasciare l’Italia”.

L’ultima domanda è sulla parità di genere. Le donne italiane e le donne straniere faticano sempre più degli uomini sia nel lavoro, sia all’interno del nucleo familiare. È d’accordo con questo, o è solo un luogo comune?

“Il sessismo come il razzismo sono fenomeni endemici, ovvero sono fortemente radicati in tutte le società. Secondo la teoria dell’intersezionalità creata dalle femministe nere afroamericane, e in particolare da Kimberlé Crenshaw, una donna nera e immigrata sperimenta forme multiple di discriminazione a causa della sua identità come donna, come nera e come immigrata. Diciamo che è sicuramente un gradino più in basso rispetto a un uomo nero e immigrato, a causa dell’intersezione di forme sistemiche di oppressione”.

Foto: TerniLife ©

 

 

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